ESCAPISMO COLONIALE
Buzzati e la narrazione coloniale, considerazioni sul racconto Uomo in Africa. La letteratura coloniale è un genere che abbiamo imparato a conoscere, spesso senza
consapevolezza, durante l'infanzia e la prima adolescenza. Iniziando dalle trasposizioni
cinematografiche de Il libro della giungla ed arrivando alla lettura di Conrad o Camus è attraverso
il contatto con la letteratura inglese e francese che, in Italia, si consuma e si esaurisce il rapporto
con la letteratura coloniale. Quanto venne scritto da Italiani sulle colonie italiane difficilmente è
oggetto di attenzioni letterarie che vadano oltre Flaiano;(1) il tema stesso dell'Italia come potenza
coloniale ha iniziato ad essere esplorato solamente dall'inizio degli anni Novanta da scrittrici postcoloniali.
(2) In una prospettiva letteraria è comprensibile dimenticarsi la letteratura coloniale italiana,
le produzioni inglesi e francesi sono infinitamente più ampie e complesse, però non si dovrebbe
dimenticare che è esistita coinvolgendo, per circa un ventennio, alcuni tra i migliori scrittori italiani
dei quali si è completamente rimossa la produzione coloniale.
La costruzione dell'Italia come nazione coloniale è stato un processo iniziato pochi anni
dopo l'unificazione che coinvolse militari, governatori, coloni ed intellettuali. Il ruolo di questi
ultimi assunse particolare importanza durante il regime Fascista. Giornalisti, scrittori, registi, attori
furono costretti a collaborare con il regime nel narrare in termini entusiastici l'impero italiano,
Buzzati fu uno di loro. Buzzati entrò giovanissimo nella redazione del Corriere della sera, fu inviato
in Libia nel 1933, a 25 anni, e sei anni dopo in Etiopia con la medesima funzione. Dalle colonie
pubblicò sessanta articoli ed altri quattordici vennero bloccati dalla censura fascista.(3) Quando si
recò in Etiopia, Buzzati aveva già consegnato le bozze del suo testo più famoso: Il deserto dei
tartari ed era uno scrittore relativamente popolare e riconoscibile, la sua prosa giornalistica era
formata dagli elementi narrativi e tematici che ne caratterizzarono la produzione letteraria.(4) La
produzione coloniale di Buzzati si allinea e con quanto richiesto dal regime e con l'approccio
imperialista che caratterizza(va) la mentalità europea dell'epoca. Un'analisi post-coloniale di queste
pubblicazioni rende evidente di come vengano incorporate nei testi le teorie della razza e l'approccio civilizzante che l'Italia assumeva nei confronti delle popolazioni locali.(5)
Tra gli scritti coloniali di Buzzati il testo Uomo in Africa, pubblicato nel marzo 1940 per la
rivista curata da Bottai Primato: lettere ed arti d'Italia necessità di un'attenzione particolare.
Quest'opera, consultabile liberamente qua,(6) richiama interesse perché è un racconto, genere nel
quale l'autore ha raggiungo il suo apice espositivo, che ripercorre i temi e gli stilemi tipici del
Buzzati che è arrivato a noi inserendoli in un'ambientazione spaziale precisa: l'Etiopia del 1939. La
trama del racconto non ha contorni netti, il noi narrante descrive un uomo italiano, del quale non
ricorda precisamente neanche il cognome Bondrini o Bondini, che cerca di trovare il suo posto in
Africa. Il personaggio viene incontrato quattro volte nel racconto, le prime tre il protagonista è in
conflitto con il luogo nel quale si trova, sembra che l'Africa non voglia accorgersi di lui mentre lui
stesso non riesce ad abbandonare l'idea di tornare in Italia. L'ultima volta che il noi narrante
incontra il protagonista è in un luogo sperduto, dove non vi è alcuna civiltà, ma egli è sereno, è
riuscito a tagliare i legami con l'Italia, l'Africa si è aperta a lui e lui vi è riuscito ad entrare. Il
racconto esprime una distanza incolmabile tra la voce narrante ed il protagonista, come se la prima
rappresentasse i valori della civiltà borghese che il protagonista rifugge accettando di vivere in
Africa, in mezzo al nulla.
Tentare di guardare a questo breve testo in una prospettiva post-coloniale, analizzando le
formazioni discorsive che lo costituiscono ed i sistemi narrativi che esse vanno a rafforzare, ci
permette di evidenziare quali percezioni dei territori colonizzati venivano divulgate all'interno dei
periodici coloniali. Dal testo, letto in quest'ottica, emerge una definizione dell'Etiopia come luogo
puramente naturale, non antropizzato, le persone che vi vivono non hanno profondità letteraria, non
hanno volto, nome o genere. Le poche volte che viene nominato qualcuno del luogo non è mai in
termini caratterizzanti ma sembra sempre un'appendice, breve, alle descrizioni della natura africana.
Quella terra non sembra avere abitanti veri e propri, solo figure animate che restano sullo sfondo,
quasi invisibili per il noi narrante che assume, automaticamente, una prospettiva bianca,
colonizzante. Nello sviluppo della narrazione, quest'Africa disabitata viene utilizzata da Buzzati
come via di fuga dalla realtà; l'escapismo che nelle sue opere viene sviluppato attraverso il magico,
il surreale, qua viene sviluppato attraverso l'alterità spaziale dell'Africa. Come in molti racconti di
Buzzati, la fuga dalla realtà borghese avviene attraverso l'improbabile, con un protagonista che
lasciando dietro di sé tutta la vita che aveva prima giunge alla spensieratezza. In questo racconto è la lontananza tra narratore e protagonista a rappresentare l'improbabilità dello scenario, un Italiano
che si reca a vivere, stabilmente, in Africa sembra un'eventualità quasi impossibile da accettare per
chi narra. Lo stesso narratore, nello stile tipico di Buzzati, nel dare un giudizio distaccato alla vita
del protagonista sembra invidiare la sua capacità di staccarsi dal mondo reale per rientrare,
totalmente, nel surreale, nell'Africano. Questo elemento di invidia verso chi lascia la tranquillità
borghese però non coinvolge la realtà Etiope, essa è esterna, passiva, l'invidia è solamente per il
protagonista, capace di tagliare il legame nostalgico con l'Italia e vivere lontano dalla civiltà. Se
l'evasione del protagonista è resa possibile dal trovarsi lontano dall'Italia è legittimo chiedersi come
si esprime la funzione dell'alterità spaziale e sociale nella quale è inserita la storia, quale tipologia di
alterità serve al protagonista per ritrovare la serenità?
Bisognerà fare un discreto cammino attraverso l'Etiopia, lasciare le vie bitumate e
piegare lateralmente, giù per quella pista rossa; e poi ancora scegliere la via più stretta
e disagevole (…) là dove la strada si biforca scegliere sempre delle due la peggiore e
più infida. Resistendo alle lusinghe del meglio, bisognerà allontanarsi molto dagli
uomini che portano cravatte e si fermano al bar. E Alla fine, quando saremo
fermamente convinti di aver oltrepassato ogni confine possibile e di essere i primi,
assolutamente i primi, a calpestare la terra allora si incontrerà una specie di capanna
fatta di canne e di fango. (…) E l'uomo che l'abita sarà lui ancora, Bondini o Bondrini,
come voi preferite. (…) I suoi occhi avranno una dolcezza ferma, come mai avevano
avuto. (7)
Così viene introdotto l'ultimo incontro con il protagonista; il territorio nel quale la voce narrante si
inoltra sembra essere disabitato, lontano dagli uomini che vivono una vita razionale, solo una volta
superato ogni confine conosciuto si ritrova il protagonista, finalmente sereno. La descrizione del
territorio si configura tramite aggettivi palesemente negativi, che vogliono allontanare il lettore
dall'idea di civiltà e rappresentare un luogo inesplorato dove si è certi di essere arrivati per primi ed,
una volta lì, scoprire che vi è già qualcuno a possedere quel luogo, un bianco, un italiano, il
protagonista della storia. Sembra essere la descrizione di un esploratore solitario ma l'autore,
nell'ultima pagina, introduce un'ulteriore caratterizzazione del luogo:
Il tenente Bondini era vestito assai male, pressapoco come al tempo della carbonaia.
Ma i suoi ascari non pareva se ne accorgessero, loro così vanitosi e maniaci delle belle divise; si sarebbe detto al contrario lo considerassero una specie di dio. Ciò traspariva
dal meraviglioso rispetto per lui, dai saluti e dagli attenti perfettissimi, degni di
corazzieri, nonostante la lontananza da ogni organizzazione umana.(8)
Il protagonista non era lì, oltre ogni confine della civiltà, da solo ma era circondato dalle truppe
coloniali italiane, dagli ascari, che non solo erano un suo possesso ma che lo adoravano anche come
se fosse una divinità. Il collegamento con Cuore di tenebra è evidente e presenta il medesimo
approccio imperialista. La razionalità umana, per la voce narrante, è lontana ma il protagonista, che
non riusciva a trovare il suo posto nel mondo, lì è una divinità. Gli ascari sono utilizzati dall'autore
per descrivere un'alterità profondamente coloniale. Lo spazio nel quale è ambientata la storia, in
tutti i suoi elementi, viene asservito alla volontà del protagonista di trovare un suo posto in Africa.
Per rispondere alla domanda precedente l'alterità che necessita la narrazione per rendere il
protagonista finalmente felice è una alterità esclusivamente coloniale.
Il racconto incorpora una concezione della civiltà esclusivamente ad uso e consumo
dell'Europeo occidentale e, soprattutto, rappresenta l'Etiopia come uno spazio vuoto di qualsiasi
volontà, di qualsiasi caratterizzazione che non sia la natura rigogliosa, pronto ad accogliere
qualunque europeo che possa sentirsi smarrito e che in Africa può ritrovarsi tramite un rapporto
imperialista con il territorio. Lo spazio, nella narrazione, ha come sola esistenza possibile quella
coloniale, quella dell'esser posseduto e di servire al ritrovamento del protagonista. Nel testo i corpi
che occupano lo spazio seguono lo stesso destino di quest'ultimo: essere colonizzati. Dal racconto
emergono evidenze di un discorso imperialista complesso e radicato nell'intima percezione
dell'autore; il quale, pur scrivendo della possibilità di un italiano di trovare la felicità nel profondo
dell'Etiopia, lontano da qualsiasi connazionale, àncora questa possibilità ad una dialettica
colonizzatore – colonizzato con chi abitava i luoghi prima di lui. Questa dialettica, per l'autore, è
l'unica via possibile per un uomo di abbandonare l'Europa per l'Africa.
In conclusione, la storia coloniale italiana ha avuto poca fortuna storiografica, il processo di
rimozione che ha subito ne ha cancellato qualsiasi traccia nella memoria collettiva e, con essa,
anche la letteratura coloniale italiana. Nonostante questo, la rilettura critica di quest'ultima è un
procedimento che oggi ha una sua necessaria attualità per una contestualizzazione più ampia della
cultura italiana. L'Italia di oggi deriva anche dalla sua esperienza coloniale, ha più legami con
questo testo di Buzzati che con Petrarca, ed è un'evidenza della quale è necessario prendere atto, così come è necessario prendere atto delle responsabilità imperialiste che abbiamo e del fatto che il
nostro approccio all'alterità è ancora tragicamente simile a quello di un qualsiasi borghese fascista
che si recava nelle colonie.
Note 1 Tempo di Uccidere venne comunque pubblicato nel 1946, a guerra conclusa.
2 Asmara Addio di E. Dell'Oro ha avuto tre edizioni tra la fine degli anni '80 e la fine dei '90; G. Ghermandi ha
pubblicato Regina di fiori e di Perle nel 2007 mentre all'inizio di quest'anno la scrittrice M. Mengiste ha pubblicato
The Shadow King che per ora non è stato ancora tradotto in Italiano.
3 Tutte le opere prodotte in Africa sono state raccolte in un volume: M-H. Caspar: L'Africa di Buzzati.
4 Della quale si può trovare una descrizione completa qua: https://www.iltascabile.com/letterature/il-realismostregato-
di-dino-buzzati/ 5 Un'analisi sulla letteratura africana di Buzzati è stata scritta da: F. Schiavon, Fantasy and censorship: Dino Buzzati's
correspondence from Italian colonies.
6 http://digitale.bnc.roma.sbn.it/tecadigitale/rivista/CFI0362171/1940/n.2/21 7 D. Buzzati, Uomo in Africa, p. 19 8 Ibid. p. 20
di Pietro Dalmazzo